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Israeliani e palestinesi, le occasioni perdute

Pubblicato: 15-10-2023
Rubrica: Tempi Moderni
Israeliani e palestinesi, le occasioni perdute

E' da quasi sessant’anni che seguo le vicende mediorientali e, in particolare, la questione palestinese. Vivendo come dramma personale tutte le vicende tragiche da cui è stata segnata: a partire dall’uccisione di un mio amico fraterno, Wael Zwaiter, uomo di pace se ce ne fosse uno, abbattuto come un cane nell’androne dell’edificio dove viveva, con una mela in mano (sarebbe stata la sua cena), perché ritenuto, a torto, uno degli organizzatori del sequestro di Monaco.

In questo lungo, lunghissimo arco di tempo non ho mai cambiato opinione. Ritenendo, per prima cosa, che la sicurezza di Israele possa essere definitivamente garantita solo dalla definitiva soluzione del problema palestinese. E, ancora e soprattutto, che questa soluzione passi dalla ripresa del dialogo tra le parti; e dal sostegno, non certo delle relative tifoserie, ma di tutti gli uomini di buona volontà. Liberi, perciò stesso, dal condizionamento tossico delle ideologie.

Già da allora, molti di noi divennero rapidamente consapevoli del danno enorme che queste avevano e avrebbero fatto alla causa palestinese. A partire dal giudizio su Israele “entità sionista” e frutto passivo e artificiale del colonialismo occidentale e perciò totalmente dipendente dall’appoggio di quest’ultimo. Giudizio che aveva portato, prima e soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, a dire no a tutte le soluzioni venute sul tappeto: dal piano di spartizione dell’Onu, sino alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza del 1967 sullo scambio pace/ territori. Risoluzione alla quale, a nostro avviso, l’Israele di allora avrebbe potuto difficilmente dire di no.

Fu quella, anche se, all’epoca nessuno se ne rese conto, l’ultima occasione in cui la collettività internazionale sarebbe stata capace di imporre ai due contendenti una pace che, come disse Schlomo Ben Ami, ministro degli esteri e principale “colomba”nel governo Barack, “non sarebbero mai stati in grado di raggiungere da soli”.

In questo senso, gli stessi accordi di Oslo, salutati allora come un passo verso la pace, sarebbero stati, in realtà il primo passo nella direzione dell’abisso. Erano, sì, la diluizione nel tempo dello scambio tra territori e pace, prevista “in contemporanea” dalla risoluzione del 1967; ma erano anche un rapporto a due in cui il partner più forte, quello destinato a fare concessioni, era sostanzialmente libero di valutare se le profferte di pace da parte palestinese erano reali oppure no. Una partita chiusa definitivamente dopo lo sciagurato rinvio delle elezioni da parte di Peres, dopo l’assassinio di Rabin, e i micidiali attentati compiuti da Hamas a ridosso delle medesime. Un’organizzazione, tra l’altro, creata dai servizi segreti israeliani in funzione anti Olp; anticipo illuminante di quello che stava succedendo, più o meno nello stesso periodo, con al Qaeda.

A dare le chiavi del futuro allo stato ebraico, e nell’arco di una generazione, sarebbero stati però gli errori clamorosi compiuti da Arafat, all’indomani degli incontri di Camp David del 2000. Il Nostro aveva fiutato la trappola, prevedendo che questi incontri sarebbero falliti e che la colpa del fallimento sarebbe stata attribuita alla parte palestinese. Ma poi vi è caduto a pie’ pari, prima proclamando il suo rifiuto con annessa la V della vittoria e poi lanciando una seconda Intifada meno spontanea e assai più sanguinosa della prima.

Prevedeva che, come era sempre accaduto in passato, la collettività internazionale e in particolare l’Europa (quella che vent’anni prima aveva riconosciuto l’Olp come unico rappresentante del popolo palestinese, considerando come unica soluzione possibile del problema quella dei “due popoli due stati” sarebbe stata l’unica soluzione possibile del loro problema) sarebbe intervenuta in suo soccorso.

Si sbagliava, però, di grosso. Perché il clima era completamente cambiato. Perché, di lì a poco, ci sarebbe stato l’attacco alle Torri gemelle. E perché la versione israeliana dei fatti (“noi vogliamo la pace ma sono i nostri interlocutori che non la vogliono; e non la vogliono perché hanno sempre in mente la distruzione di Israele”) sarebbe stata, per l’Occidente, il pretesto ideale per non occuparsi più della faccenda.

Ne sarebbe seguita una lunga discesa verso il nulla. Segnata da interventi vergognosamente falliti: l’Obama che parte lancia in resta considerando la soluzione del problema palestinese, esigenza prioritaria in vista della costruzione di un nuovo ordine democratico nell’area e chiude, vedendosi denunciato, nel suo stesso paese e a Camere riunite, da Netanyahu come nuovo Chamberlain. Ma anche da tante occasioni perdute: nulla, ma proprio nulla, per la Palestina o, almeno, per i palestinesi, nei vari accordi d’Abramo conclusi con gli stati del Golfo.

A tutto ciò si aggiunge il totale discredito dell’Autorità palestinese: in vana ricerca di una qualche legittimazione internazionale; di fatto subordinata nei confronti di Israele nel garantire la sicurezza di quest’ultimo in Cisgiordania; corrotta e inefficace, così da non corrispondere alle esigenze più elementari del suo popolo. Con la conseguente completa perdita di fiducia sulla sua leadership come sulla realizzabilità della formula dei due popoli due stati.

Arriviamo così, agli inizi degli anni venti, ad un momento in cui tutte le opzioni sembrano tornare in discussione. Momento che, non a caso, coincide con la simultanea sconfitta di Trump e di Netanyahu. Un momento in cui si manifesta la concreta possibilità di una stabilizzazione della situazione: da una parte una tregua formalmente concordata con Hamas, dall’altra un progetto a tutto campo tendente al miglioramento, individuale e collettivo, delle condizioni di vita degli arabi, in Israele, come a Gaza e nei territori occupati.

Non sapremo mai quando, come e dove questo progetto si è incagliato. Quello che è certo è che ha trovato scatenata, in opposizione, una destra sempre più radicalizzata. E, soprattutto, un sostegno del tutto insufficiente da parte americana. La più consapevole, teoricamente, della necessità di avere un Medio oriente pacificato; la meno disposta a pagare il prezzo necessario per ottenere questo obbiettivo. Che si tratti di ridimensionare un sanzioniamo dai tratti pavloviani; o di spendere i soldi necessari a sostegno di un accordo.

Di qui un immobilismo che porterà alla disgregazione della coalizione anti Netanyahu. A nuove elezioni. E al ritorno di quest’ultimo, grazie all’alleanza con un’estrema destra, espressione di un radicalismo eversore.

Da allora in poi, il quadro è radicalmente cambiato. Prima, eravamo di fronte ad eventi in qualche modo scontati, frutto di un copione segnato dalla vittoria totale di uno dei contendenti e dalla scomparsa dalla scena dell’altro. E, perciò stesso, oggetto di una indifferenza generale, intervallata da crisi momentaneamente coinvolgenti ma, comunque, destinate a rientrare. Oggi, siamo diventati, tutti, partecipi di una crisi di una violenza potenzialmente incontrollabile, segnata dall’alternativa drammatica tra un negoziato che abbia al suo centro il problema palestinese e lo scoppio di una guerra generalizzata all’insegna dell’ “occidente contro il resto del mondo”.

In questa prospettiva, le azioni barbariche compiute da Hamas vanno condannate senza riserve ma anche valutate per quello che intendevano produrre: una rappresaglia indiscriminata dalla portata nettamente maggiore e senza nessuna possibilità di concludersi con l’auspicata vittoria definitiva di Israele. E con riflessi, a livello di pubblica opinione, del tutto negativi e con possibilità di escalation sempre maggiori. E, nel contempo, un alt definitivo ai processi di normalizzazione in atto, tutti compiuti alle spalle dei palestinesi.

Non a caso, allora, le grandi manifestazioni in atto nel nostro paese, e non solo, prendendo nettamente le distanze dalle azioni di Hamas, non inneggiano a vittorie future ma spingono verso ogni possibile mediazione.

La partita è ancora aperta. E, nel nostro piccolo, faremo tutto il possibile perché essa venga percepita per quello che è per le opzioni che apre. Di guerrieri da tastiera nel nostro paese ce ne sono fin troppi; sino a ritenere la polemica nei loro confronti un sostegno ad un’azione di igiene mentale collettiva.

Alberto Benzoni

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