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Dalla politique d'abord al leaderismo

Pubblicato: 26-01-2023
Rubrica: Dibattiti
Dalla politique d'abord al leaderismo

Bene ha fatto Alberto Benzoni ad opporsi, con ironia, ma anche con forza al tentativo, goffo, ma non ingenuo, di una certa destra di appropriarsi della figura del leader socialista. Credo però che la questione sia più complessa, così come complessa è stata la figura di Craxi. In queste poche righe tenterò di limitarmi a un ragionamento da storico (per il militante, mi sono sempre sentito “vergin di servo encomio e di codardo oltraggio”: le critiche, anche dure, alla conduzione craxiana del partito le feci a tempo debito, quando era all’apice della sua fortuna politica).

  • Detto questo, Craxi appartiene senz’altro alla tradizione socialdemocratica. Ma, come il suo maestro Pietro Nenni, aveva fatto della politique d’abord la propria parola d’ordine. Quindi molta attenzione alla tattica, meno alla strategia e ancor meno agli aspetti ideologici. Non era un intellettuale prestato alla politica come Francesco De Martino e neppure un attento conoscitore della letteratura economica come Riccardo Lombardi. Tanto è vero che, in entrambi i campi, come peraltro molti uomini politici, ricorreva a dei ghost writers (penso ad es. a Luciano Pellicani o a Virgilio Dagnino). Però, come tutti i leaders della prima Repubblica, conosceva il valore politico, in un sistema mediatico molto diverso da quello attuale, delle battaglie culturali e ideologiche. Anche da questo punto di vista dobbiamo però distinguere varie fasi, sullo sfondo dell’evoluzione della politica internazionale: a) i primi anni della sua segreteria, quelli dell’alleanza con la sinistra lombardiana, vedono l’elaborazione, culminata nel congresso di Torino del 1978, del progetto socialista per l’alternativa. È il periodo anche del Vangelo socialista, il cosiddetto saggio su Proudhon, e della rivalsa, anche intellettuale, nei confronti della cultura comunista. b) il 1981 è l’anno della vittoria di Mitterrand in Francia (e dell’ascesa al potere di Reagan negli Usa), con un programma comune con il PCF, che però sostanzialmente crolla dopo 6 mesi.Contemporaneamente, al congresso di Palermo, Craxi abbandona il progetto socialista, privilegiando l’alternanza e la governabilità, con una forte accentuazione del proprio ruolo di leader (un processo peraltro visibile anche in altri Paesi, dalla Francia alla Gran Bretagna, dalla Germania alla Spagna, contemporaneamente al declino del modello del partito di massa e alla graduale adozione di quello americano, del partito come comitato elettorale) attuata con una modifica dell’articolo 26 dello Statuto, consentendo così l’elezione diretta del segretario del partito da parte del Congresso. Agli occhi dei militanti socialisti, come emerge da una lunga inchiesta giornalistica tra i delegati (Giorgio Rossi, Timori, speranze, orgoglio: i socialisti aspettano che il leone ruggisca, “la Repubblica”, 19-20 aprile 1981) Craxi è l’uomo che ha chiuso l’epoca di un Psi “terra di conquista per chiunque”, “colonia o sottoprotettorato dc”. È un aspetto colto, all’epoca, anche da Giuliano Amato, che però ne sottolineava anche i rischi che si sarebbero evidenziati da lì a non molti anni, nella parabola politica di Craxi: Craxi per i socialisti non è soltanto un riformista, è l’uomo alto e forte che con la sua voce robusta e il suo linguaggio inusitatamente chiaro e pacato ha ridato a ciascuno di loro la certezza di poter sopravvivere e li ha fatti sentire finalmente forti, rispettati dagli altri. “Abbiamo di nuovo l’orgoglio di essere socialisti”, si sente dire assai spesso ed è una delle frasi a cui chi ascolta applaude di più. È bene che sia così. Ma guai se fosse soltanto così, se questa iniezione di vitalismo fosse non una premessa ma finisse per essere il tutto. E il rischio c’è, rafforzato da un serpeggiante culto della personalità che alcuni avventatamente alimentano (Giuliano Amato, Craxi a metà del guado,”la Repubblica”, 1 maggio 1981).

Trent’anni dopo Rino Formica, colui che con Claudio Martelli fu uno dei promotori della modifica dello Statuto, ammise che «il partito dopo il 1981 Congresso di Palermo non fu in grado di andare oltre il revisionismo culturale e l'attivismo istituzionale. Abbandonò il terreno del rafforzamento del partito e del più vasto radicamento sociale. Prevalse una linea superficiale: Il consenso elettorale si doveva accrescere con l'azione nelle istituzioni, il consenso sociale si doveva allargare con le buone relazioni di vertice con il sindacato delle imprese e con il sindacato dei lavoratori. In questa debolezza strutturale va ricercata la vera origine della decadenza socialista negli anni ‘80 e l' implosione del 1992-1994» (cfr. la sua testimonianza in in Gennaro Acquaviva-Luigi Covatta (a cura di), Il PSI nella crisi della prima Repubblica, Marsilio, Venezia 2011, p. 470).

  • c) l’anno dopo si tiene la conferenza programmatica di Rimini, quella dei “meriti e dei bisogni”. Anche qui l’attenzione si sposta gradualmente dal lavoratore al cittadino al consumatore, in sintonia con lo “spirito dei tempi”: finalmente si usciva dagli anni di piombo, la nave tornava ad andare, per utilizzare un altro slogan di Craxi, che l’anno dopo sarebbe diventato presidente del Consiglio. Parallelamente all’enfasi sulla “governabilità”, si accentuava quella sul ruolo carismatico del leader: al congresso di Verona del 1984, Craxi fu riconfermato segretario del partito per acclamazione. Dalla democrazia dell’autogestione si era arrivati alla “democrazia dell’applauso” (come la definì Bobbio sulla “Stampa” del 22 novembre 1984), da Mitterrand a Ghino di Tacco. 

 

d) 1983-1987: la presidenza del Consiglio, che meriterebbe un’analisi a parte. Dal punto di vista elettorale, in questi anni il PSI passò dal 9,6% delle elezioni del giugno 1976 (che portarono alle dimissioni di De Martino e all’elezione alla segreteria di Craxi) al 14,2% del 1987. In sostanza, il PSI craxiano non riuscì mai a decollare veramente sul piano elettorale: con quella percentuale poteva svolgere un ruolo di interdizione, ma non sbloccare il sistema politico (e, peraltro, lo stesso progetto di “grande riforma”, la cui necessità Craxi aveva intuito, non riuscì mai a concretizzarsi, neanche in un programma compiuto). Questa è stata la sua vera sconfitta politica. Dopo il 1987 inizia il suo declino (anche fisico). Craxi, che per altro aveva ha sempre nutrito, fin da giovane, grande attenzione per la realtà internazionale, frequentando i congressi delle organizzazioni mondiali giovanili, intrecciando conoscenze e amicizie destinate a durare per tutta la vita, mantenendo la tradizione internazionalista del socialismo italiano (pensiamo agli aiuti più o meno clandestini a spagnoli, greci, cileni durante la dittatura e poi a Solidarnosc), non comprende (o non vuole comprendere, come peraltro quasi tutte le componenti del sistema politico italiano) il significato profondo di quanto avviene tra il 1989 e il 1992 (tra il crollo del Muro di Berlino e Maastricht), un vero e proprio cambio di paradigma, uno sblocco dello stesso sistema a quel punto non più governato da quelli che erano stati i suoi principali attori, i partiti. Aggiungiamo che il PSI era un partito che, storicamente, anche per la propria cultura, aveva sempre sofferto di un deficit di organizzazione e di struttura, amplificato da quando si era appunto deciso di puntare molto sulla personalità del proprio leader carismatico. Il crollo fu repentino, ma non imprevedibile, almeno per chi voleva vedere.

Giovanni Scirocco

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