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Craxi e il partito: un problema di metodo?

Pubblicato: 04-02-2023
Rubrica: Dibattiti
Craxi e il partito: un problema di metodo?

Il dibattito su Bettino Craxi che si sta sviluppando in queste settimane su “Critica Sociale” è stimolante perché sta cercando, senza retorica né agiografie, di provare a mettere a fuoco meriti e complessità di una figura centrale della storia socialdemocratica, come hanno ribadito con chiarezza Alberto Benzoni, Massimiliano Amato e Giovanni Scirocco.

Con questo intervento mi propongo, più in piccolo, di riflettere attorno a un tassello della complessa vicenda politica e umana di Craxi: quale il suo rapporto con il Psi e la sua macchina organizzativa?

Nella prima fase della sua segreteria, grosso modo attorno al periodo 1976-1981, il partito ebbe innegabilmente un ruolo centrale. Vari livelli della “macchina” vennero coinvolti, per esempio, nell’elaborazione del Progetto socialista, forse l’ultimo documento ad ampio respiro concepito in un partito della sinistra italiana, capace di prospettare proposte per la quotidianità e al tempo stesso di tracciare una rotta per la trasformazione profonda della società, ovviamente in senso socialista.

Con l’arrivo degli anni Ottanta, e ancor di più dopo l’assunzione della guida del governo nel 1983, ecco però che quel tipo di approccio venne progressivamente messo da parte. Contestualmente al declino del “partito di massa tradizionale” e all’ascesa del “partito americano elettorale”, al Congresso di Palermo del 1981 – come ha ricordato Scirocco – Craxi fece approvare la modifica dell’articolo 26 dello statuto, consentendo così l’elezione diretta del segretario nazionale da parte dei delegati congressuali.

Quella scelta corrispose però ad un sostanziale abbandono dell’idea di rafforzare la struttura del partito, anche attraverso un ampliamento del suo radicamento sociale. Certo, il Psi non fu l’unica forza della socialdemocrazia europea ad agire in questo senso – si pensi, ad esempio, al travaglio del Labour inglese, a quello della Spd tedesca e anche a quello del Ps francese di Mitterrand sempre negli anni Ottanta –; tuttavia, questa scelta, che all’epoca parve ai più in linea con il nuovo clima politico e culturale che si stava affermando nel paese dopo le vicissitudini degli anni Settanta, fu all’origine dell’implosione del 1992-1994.

Non voglio certo sottovalutare il peso di Tangentopoli e alcune sue storture: per esempio, basti ricordare che qualche “dubbio sulla correttezza dei metodi usati dai giudici traspariva quando dalla procura milanese filtravano anche gli allegati secretati alle domande di autorizzazione a procedere per i deputati coinvolti nel caso Chiesa, primo tra questi il leader del Psi” (S. Colarizi, M. Gervasoni, La tela di Penelope: Storia della seconda Repubblica, Laterza, Roma-Bari, 2014).

La macchina si sgretolò anche perché ve ne fu poca cura da parte di chi ne era il massimo responsabile. E non sto parlando di questioni imperscrutabili e non ben visibili già un decennio prima rispetto all’esplosione, nella primavera del 1992, dell’ondata di arresti e di avvisi di garanzia che travolse il gruppo dirigente del Psi. Nella riunione della direzione socialista del 7 settembre 1983, quindi a due mesi dall’elezione di Craxi alla presidenza del Consiglio, Riccardo Lombardi ripropose “con forza l’attribuzione alla Commissione centrale di controllo non più solo di poteri giudiziari in base a denunce di comportamenti scorretti, ma anche di poteri di iniziativa preventiva iniziando indagini generalizzate sullo stato di salute e morale delle diverse Federazioni. Accogliere tale rinnovata proposta sarebbe una manifestazione concreta della determinazione del partito ad eliminare i fattori inquinanti che ne hanno offuscato l’identità” (“Avanti!”, 9 settembre 1983).

Parole profetiche, che però non vennero ascoltate a dovere. Con le conseguenze che tutti ben conosciamo.

Jacopo Perazzoli

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