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Contraddi’ e si contraddisse: una personalità tragicamente complessa

Pubblicato: 28-01-2023
Rubrica: Dibattiti
Contraddi’ e si contraddisse: una personalità tragicamente complessa

Forse, per sottrarre Craxi alle appropriazioni indebite che si vanno facendo della sua eredità, favorite invero anche dai risentimenti (ma a questo punto non più solo quelli) della figlia Stefania, potrebbe tornare utile concentrarsi su alcuni dati immutabili della sua complessa biografia. Il primo, ça va san dire, è la provenienza antifascista, in uno con un’incrollabile fede antitotalitaria. Sia l’una che l’altra mai messe in discussione: e già questo basta e avanza per liquidare il surreale avallo alla tesi di un suo ingresso nel Pantheon della “destra-destra” che il giornale di casa Agnelli ha disinvoltamente fornito, senza molto sprezzo del ridicolo. Per la cronaca, nello stesso numero, celebrando i 100 numeri del magazine Specchio, il direttore di quel giornale esibiva un piccolo distillato del proprio odio antisocialista rievocando plaudente il Grillo della demenziale battuta sui cinesi (tutti socialisti e tutti ladri) a Fantastico 7, e il disgustoso titolo di “Cuore” sull’ora legale, del quale a distanza di anni si è vergognato lo stesso autore. Ma tant’è: miserie. Quanto a Craxi, ci sarebbe un’altra non secondaria circostanza che esclude qualsiasi parentela o anche lontana affinità con la destra (detta così sembra quasi che il cosiddetto onere della prova sia a suo carico, e anche ciò è abbastanza assurdo). La rievocava spesso, perfino nei momenti in cui maggiormente cruenta fu la guerra civile a sinistra, Armando Cossutta, il più comunista dei comunisti italiani. Vale a dire l’apprendistato da dirigente del partito – nei primissimi anni Sessanta, quando cioè nelle fabbriche andava diffondendosi il verbo dell’operaismo – da Bettino svolto a Sesto San Giovanni. La cosiddetta “Stalingrado d’Italia”, dove il giovane e scalpitante autonomista cresciuto all’ombra di Nenni venne mandato a fare il segretario di una sezione composta per il 90% da lavoratori dell’industria. Insomma: ci siamo capiti…

C’è poi un terzo dato che rappresenta un nodo storiografico rilevante, rispetto al quale però molte ricostruzioni, da quelle più recenti a quelle più remote, sembrano scontare una sorta di timidezza interpretativa. Che non può essere risolta certo nello spazio di un articolo, ma va comunque accennata, come traccia per futuri approfondimenti. Questo. Per un mero fatto anagrafico, Craxi viene ad essere il primo segretario del Psi a essersi formato culturalmente, politicamente e, quel che più conta, psicologicamente e sentimentalmente, nel clima creato dai due grandi eventi che cambiano il volto del socialismo europeo del secondo Novecento: vale a dire la Bad Godesberg di Willy Brandt e l’Epinay mitterrandiana. Per dirla in breve, appartiene a una generazione di dirigenti socialisti, da Gonzales a Palme, a Soares, a Papandreu, tutti nati tra la metà dei Venti e i primissimi Quaranta, ai quali il tragico 1956 ha aperto gli occhi, favorendo la nascita di una coscienza totalmente nuova, soprattutto se rapportata agli omologhi leader nati tra la seconda parte dell’Ottocento e l’inizio del XX secolo. Per i socialisti italiani, per più di ottant’anni rimasti aggrappati prima al mito turatiano delle origini, poi a quello dei fronti popolari e infine al paradigma resistenziale, è la premessa per una rivoluzione antropologica. Berlinguer, in un incomprensibile e anacronistico rigurgito terzinternazionalista, parlò di mutazione genetica, dando all’espressione il massimo dell’accezione negativa. Il segretario del Pci coglieva la superficie, e faceva prevalere il livore sull’analisi politica dei tempi lunghi, forse anche per un piccolo calcolo di bottega.

In realtà, pur avendone preso le distanze dopo l’Ungheria, è solo con Craxi che il Psi regola definitivamente tutti i conti residui con lo stalinismo, che nel resto della sinistra italiana, ancora nel 1976 quando egli approda alla segreteria, è sopravvissuto ai tank sovietici che hanno schiacciato sotto i loro cingoli la rivoluzione operaia, libertaria e socialista di Budapest, al declino del togliattismo e perfino all’esplosione delle nuove soggettività politiche studentesche e operaie del “decennio rosso” ’69-’79. Craxi non ribadisce solo la rottura politica, già ampiamente sancita  dal Psi nel 1956. Va oltre: promuove una frattura netta da un punto di vista teorico e culturale, anche se la revisione che impone al suo partito (appoggiato dai radical chic del gruppo Espresso-Repubblica di cui il direttore del giornale degli Agnelli è un epigono: dopo la pubblicazione del “Vangelo Socialista” Bettino sarà da loro scaricato brutalmente) è maldestra. La “rottamazione” di Marx con Proudhon non è operazione felicissima, perché stabilisce indirettamente una linea di continuità tra marxismo e bolscevismo del tutto arbitraria e infondata. Ma, ed è questa la cosa che conta di più, Craxi lancia la sfida dell'egemonia a tutta la sinistra italiana sulla base di una radicale e irreversibile messa al bando di ogni ambiguità. E' un'operazione più profonda di quella promossa da Saragat a Palazzo Barberini nel ‘47. E più efficace anche di quella del Nenni del congresso di Venezia del 1957, perché poggia su diversi rapporti di forza con i comunisti. Come poi tutto ciò abbia potuto coincidere con l’instaurazione di una ferrea pratica leaderistica e cesaristica nel governo del partito, con punte da culto della personalità, è un punto sul quale bisognerà ancora discutere, e molto a lungo. Qui si introduce brevemente un argomento: l’assenza, in Craxi, di qualsiasi senso del limite. Cui corrispose l’arrembaggio al partito di un ceto politico composto da piccoli opportunisti e professionisti a contratto in cerca di rendite di posizione e basta. Meritano altresì una discussione franca e serena, possibilmente “altra” rispetto alla lettura storico-politologica affermatasi dopo la sua caduta, le scelte strategiche dell’alleanza organica con la destra democristiana e del pentapartito, protrattesi anche dopo che la Storia gli aveva dato ragione sul rapporto tra socialismo, democrazia e libertà. Parliamo di un leader vicino, non solo politicamente, all’esperimento cileno di Allende e molto colpito, anche emotivamente, dalla sua tragica conclusione, principale sostenitore della causa palestinese nel conflitto arabo-israeliano e in genere di tutti i movimenti di liberazione nazionali che generosamente finanziava, intransigentemente schierato a difesa dell’intervento pubblico nell’economia e duramente critico verso l’avanzata della globalizzazione neoliberista, della quale aveva visto con qualche decennio di anticipo la caratteristica principale di fenomeno produttore di diseguaglianze su vasta scala. Viene in mente, al riguardo, il ritratto che Emanuele Macaluso fece di Giorgio Amendola nel suo “50 anni nel Pci”: per definire il leader della “destra” comunista, Macaluso ricorse a un’espressione che si addice perfettamente a Bettino e alle sue imperscrutabili aporie: “contraddì e si contraddisse”.

Di certo nel tentativo di Craxi di dotare di un solido baricentro politico-culturale (quello presidiato dalle grandi socialdemocrazie europee) un partito che storicamente aveva tra i suoi codici costitutivi una genetica idiosincrasia a ogni ipotesi di stabilizzazione, c’era un elemento che, paradossalmente, lo avvicinava al suo predecessore. Lo sforzo di “correggere” la storica anomalia (o esemplarità) del socialismo italiano riassunta dal suo eclettismo ideologico, rese Bettino speculare a De Martino, che con diversi mezzi culturali e intellettuali aveva cercato di imporre una rotta precisa a un equipaggio eterogeneo, variegato e da sempre poco incline a qualsiasi forma di ortodossia. La “stabilizzazione” craxiana spostò a destra il Psi in risposta a quella tentata da De Martino che l’aveva quasi gettato tra le braccia del Pci? E qui cadiamo nel campo delle semplificazioni estreme, buone per le esercitazioni di qualche sociologo della domenica, non certo per la ricerca storica. Men che mai per un giudizio politico che abbia l’ambizione di essere minimamente risolutivo su una personalità destinata a rimanere a lungo, oltre la damnatio memoriae di questi decenni, tragicamente complessa e complessamente tragica. Il dibattito è quanto mai aperto.

Massimiliano Amato

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